Pino Aprile: Metafora Delle Sorti Rovesciate Per Il Sud


Nel gioco della palla, il Paese di sottosopra era a chiacchiere uno, di fatto, due: il Paesedisopra e il Paesedisotto. Accadde che un allenatore disotto trovò in un libro una vecchia carta, sulla quale era scritto (con autorevole conferma di disegni colorati, pur sbiaditi dagli anni) che ci fu un tempo in cui anche il Paesedisotto aveva squadre di undici elementi, e pure ben piazzate nei campionati. Quindi non era vero che il gioco e la palla erano invenzioni di quelli del Paesedisopra; ed era falso quanto si leggeva nei libri di storia e nel regolamento della federazione sportiva, secondo cui il numero dei giocatori doveva essere minimo di cinque e via via altri in aggiunta, sino a undici, in proporzione al numero dei gol cumulati nel tempo.
Siccome quelli del Paesedisotto erano stati depredati di tutto e non avevano soldi per assumere fuoriclasse (spesso, non avevano nemmeno un vero campo in cui allenarsi: l’unico loro campione era stato un centometrista costretto ad allenarsi sui marciapiedi e nei campi), di gol non ne avevano mai fatti, ma li avevano sempre presi, così, le loro squadre dovevano scendere in campo in cinque. Con un doppio risultato negativo: fra loro, nel campionato, di fatto minore, il tifo scavava fossati profondi, alzava muri, seminava astio, dividendo ancora di più; e nessuna delle loro squadre aveva possibilità di successo contro quelle del Paesedisopra, nel campionato col trucco, talché tutte perdevano sempre e si abituavano e si educavano a perdere. Non solo: se nelle squadrette sottane emergeva qualche talento, gli squadroni soprani lo portavano via a suon di monete; così, il meglio migrava sempre disopra, il peggio restava sempre disotto. Però, tacendo e ignorando il come e il perché, la cosa veniva raccontata così: i sottani valgono meno dei soprani. Per questo, perdono sempre. E dinanzi agli effetti, quelli disotto “se ne facevano persuasi” loro stessi, dimenticando le cause.
La scoperta della carta storica cambiò il mondo disotto: l’allenatore chiamò tifosi e giocatori a raccolta, fu una giornata epica, decisero di mettere insieme le forze, per ribaltare sia l’andazzo, sia la menzognera versione dei fatti che li condannava alla sconfitta perenne. La federazione, alla luce dei documenti rinvenuti, dopo aver tentato di negare, dovette infine accettare il ricorso delle squadre disotto, con mille farfugliamenti di autoassoluzione per il pregresso. Fra l’entusiasmo delle tifoserie, su proposta dell’allenatore che trovò la carta, si decise di formare una squadra, finalmente da undici, con i migliori giocatori di tutte quelle disotto. Un vento caldo di euforia scaldò i cuori della gente disotto; e, purtroppo, pure le menti: ma questo si vide dopo. L’allenatore non era preparatissimo lui stesso, avendo sempre guidato solo ridotte squadre disotto e mai una di undici elementi. Ma anche questo si vide dopo, nonostante lui per primo avesse messo gli altri sull’avviso. La scoperta di avere avuto un dignitoso passato e persino dei primati (si cominciò a recuperarli e a ricordarli, gonfiando il petto e alzando la voce: «Noi fummo da undici, prima che ci riduceste a cinque, con l’inganno, la forza e la menzogna!») indusse tale sensazione di forza e sicurezza, che molti pretendevano di scendere in campo già alla prima partita in undici, non importa come messi insieme.

L’allenatore tentò di far capire che ci vuole un po’ di tempo perché uno, più uno, più uno, sino a undici, diventino una squadra e non soltanto una somma.
Ma chi non voleva sentire ragioni, cominciò a porre in dubbio la reale volontà e lealtà di combattere dell’allenatore che scoprì la carta. E questo si vide da subito (la ferocia e la volgarità delle accuse contro di lui non era mai stata usata contro i truffatori delle squadre disopra). Fu il primo segnale. Sottovalutato. Ma l’allenatore tenne duro: scenderemo in campo in undici, quando saremo pronti a farlo bene. La prima partita venne saltata. E qualcuno cavalcò i malumori: il massaggiatore pretese di divenire vice dell’allenatore. Che gli fece notare: «C’è già il vice». «Ma non sono io», replicò l’altro. «Se è così, c’è una ragione», provò a obiettare il mister. Ma senza risultato: forte del rapporto continuo con i giocatori, il massaggiatore montò lo spogliatoio contro il vice, che alla fine si dimise. Il massaggiatore, però, non fu promosso e pure le conseguenze del suo risentimento vennero sottovalutate (si aveva una fiducia eccessiva, si vide poi, nell’entusiasmo suscitato dalla scoperta della carta, e nella sincerità di tanti che proclamavano di sostenere compatti la squadra così fortunosamente messa insieme). Poco dopo, inattesa (per un imprevisto, si dovette anticipare un recupero), si presentò un’altra occasione di partita importante. La squadra di sotto non era ancora pronta, si stava strutturando, ma non c’era l’animo per un ulteriore rinvio alle date regolari del calendario: l’allenatore dovette assecondare il sentire comune e travolgente (spinto lui stesso dalla speranza, non proprio razionale, che un moto di popolo e di spirito così forte doveva produrre esiti all’altezza, nonostante la scarsità di tempo, mezzi, preparazione e pure di competenza, nel girone da undici).
Ma la realtà è spietata, non ha sentimenti e chiamò subito a prendere atto delle circostanze: la data della partita incombeva e mancava il capitano e goleador; né l’allenatore era disponibile svolgere pure quel ruolo. Si dovette ricorrere a quello che ci si poteva permettere: un giocatore esterno che aveva militato in squadre di primo piano, ma ormai sfiatato, in cerca di sistemazione, fidando solo nel nome che aveva ancora buona eco in periferia. Il nuovo venuto, però, non rispettò mai il contratto, si mise a trescare con i giocatori, per divenirne allenatore, seminò tale zizzania che, a mano a mano, le squadre disotto che avevano aderito al patto ritirarono i propri calciatori e infine, alla vigilia della partita, l’allenatore stesso dovette accettare la scelta dei suoi collaboratori di non scendere più in campo con l’inaffidabile e prepotente nuovo venuto. Si scoprì, allora, che parte della squadra aveva segretamente concordato il passaggio nelle fila dello sleale sopraggiunto; il vice del massaggiatore, dopo aver detto a tutti che il mister era un delinquente, gli ordinò: «Tu fai il padre nobile che trovò la carta, il motivatore, è quello che sai fare. Ma lascia a noi la squadra. O di te non resteranno nemmeno i cocci»; il massaggiatore (ma anche altri, ognuno con una strategia vincente da imporre) aveva clandestinamente organizzato parte dei tifosi contro l’allenatore e l’associazione delle squadre disotto, orientatoli verso l’ambizioso e sfiatato sopraggiunto, che ormai usava (pure a sproposito) un linguaggio sottano che non era mai stato il suo. E alla fine, giocò lui la partita, con gli scampoli sottratti alla squadra (nemmeno questa volta in undici). Perse e accusò quelli che aveva indotto ad andarsene di averlo fatto perdere e come premio di consolazione pretese che i raccattapalle (contro cui aveva avuto parole di fuoco, prima della partita) li scegliesse lui.


La disunione delle squadre disotto per la grande rimonta nel campionato, a quel punto, produsse non più una forte sfida, ma una meno forte e una debole, al servizio del sopraggiunto sleale. Il tifo divise le due squadre sottane “del futuro”, come era prima dell’unione della carta. Poi, alcuni che non avevano visto coronate le proprie ambizioni in seguito alla diaspora, né con i fuoriusciti, né con i rimasti, raccolti intorno a chi aveva tentato di aggredire l’allenatore negli spogliatoi (ci vollero quattro calciatori, per fermarne la furia), decisero di fare una terza squadra da undici per la rimonta sottana nel campionato; e le sfide divennero tre, una meno forte, una debole, una debolissima. Nessuna da undici. E più si faceva aleatoria la possibilità di porre in campo una compagine davvero da undici e forte contro le squadre soprane, più era virulenta la campagna di fango tifoso contro la formazione sottana più consistente (pur se smagrita).

Tante persone perbene che avrebbero voluto sostenere la squadra “nazionale“ disotto, per timore di essere coinvolti in quelle volgarità, evitavano di andare allo stadio e molti di quelli che lo frequentavano, smisero di farlo.
Ma l’allenatore e i giocatori rimasti continuarono a credere nella possibilità di riuscire a mettere insieme la squadra da undici per la partita ora imminente contro le formazioni soprane; si preparavano all’appuntamento, come da calendario della federazione. Ma, ancora una volta, ci fu un imprevisto e la gara venne anticipata. Un vero disastro, perché la cosa coglieva la compagine a metà del guado, quando i campi del Paesedisotto erano allagati dalle piogge monsoniche e lontana gran parte della squadra, tornata nei paesi d’origine per la transumanza. L’allenatore e il vice tentarono di fare accordi con potenti club forestieri, per avere campi per allenarsi e giocatori in prestito; il vice e il suo miglior collaboratore scrissero, per questi patti, le condizioni da cui non si doveva recedere, poi le modificarono al ribasso, pretendendo (giustamente) che ci fosse un documento firmato e reso pubblico. Ma venne loro chiesto un prezzo troppo alto, in cambio di troppo poco. Lo staff fu riunito: che facciamo? La risposta fu: è chiaro, non ci vogliono alleati. Il giorno della partita era vicino, però. L’allenatore ideò una strategia per scendere in campo con chi c’era, ma giocando in modo che fosse palese la scorrettezza di un campionato con il trucco: «Perderemo, ma sarà a tutti evidente il perché». Ne parlò al suo vice, che parve entusiasta e dette buoni suggerimenti, poi al suo staff. Un paio avevano dei dubbi, ma la cosa passò. Quel modello di gioco, annunciato alla stampa, interessò, a sorpresa, altri club, sottani e no, che decisero di farlo proprio (in fondo, era una novità). A creare ostacoli furono alcuni calciatori, invece: in particolare uno, appena rientrato da un lungo viaggio di piacere che non aveva voluto interrompere per gli allenamenti: «Decido io cosa fare in campo, non l’allenatore». E arringò gli altri: «Non siate pecore. Facciamo la riunione del centrocampo, per stabilire, democraticamente, fra noi». E mentre loro discutevano, in campo, il resto della squadra faticava il doppio, massacrata dagli avversari. Si cominciò a litigare: «Perché non giocate e dopo discutete?», gridavano gli uni; «Perché non discutete con noi, prima?», opponevano gli altri: «Ma ne abbiamo già discusso». «Noi non c’eravamo». «Perché avete preferito rimanere al mare». «Ma ora siamo tornati». «Ma ora stiamo giocando». Insomma, uno spettacolo mai visto. Il giocatore che aveva acceso la miccia riconobbe nella squadra avversaria un compagno di scuola. E chiese agli altri di giocare in modo da favorirlo.
«Ma sei matto?», gli urlò l’allenatore. «Io sono libero!», replicò l’altro. «Libero è un ruolo, nella strategia e organizzazione della squadra; non vuol dire far ognuno quel che gli pare. Il libero gioca con i suoi colleghi e contro la stessa squadra avversaria! Ci sono maglie di colore diverso, per questo. Non si può avere la maglia blu e fare gol per quelli con la maglia rossa».
E questo l’allenatore avrebbe dovuto risparmiarselo: il libero colse l’involontario suggerimento al volo e, palla al piede, corse verso la propria porta, sorprese il portiere che non pensava di doversi difendersi da un compagno di squadra e calciò a rete. Goool!!! Gooool!!! Con un colpo solo, aveva dimostrato di essere libero, aveva fatto un favore al suo compagno e aveva realizzato la prima rete nella storia delle squadre del Paesedisotto; e confermato che le squadre sottane potevano e dovevano solo perdere. Il che legittimò il suo progetto di creare una quarta sfida disotto allo strapotere delle squadre disopra…
Anni dopo, un sottano che era stato a lungo all’estero, per lavoro, tornò nel Paesedisottosopra: le squadre erano nuovamente tante, divise, reciprocamente ostili, tutte da cinque, tutte perdenti.
«Ma la rivoluzione della vecchia carta?», chiese, ricordando la vicenda che l’aveva entusiasmato, prima di andare via.
«Quale carta?», risposero.
Allora decise di fare una squadra sottana da undici, per giocare con le squadre soprane alla pari e mostrare che potevano essere battute. «Perché lo fai?», cercò di distoglierlo un vecchio che ricordava l’esperienza dell’allenatore. «Perché l’unica cosa sicura è che, prima o poi, qualcuno ci riuscirà».

Pino Aprile Presidente del Movimento 24 Agosto per l’Equità territoriale.

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