Omicidio Saman parte il processo

Di Rita Lazzaro

Il 19 novembre 2022 veniva ritrovato il corpo della 18enne pakistana Saman Abbas. Su indicazione dello zio Danish, gli inquirenti si sono recati in un casolare abbandonato a poche centinaia di metri dalla casa della famiglia Abbas a Novellara. All’interno del rudere, che in passato era stato già perlustrato dalle forze dell’ordine senza successo, in una fossa profonda circa due metri c’era un cadavere: secondo il racconto dell’uomo era il corpo di Saman. Una tesi che risulterà vera il 4 quando l’avvocato Barbara Iannuccelli, dell’Associazione Penelope, rivela che il cadavere ritrovato a Novellara appartiene a Saman Abbas.

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L’anatomopatologa Cristina Cattaneo, che ha effettuato l’esame autoptico, è riuscita ad accertarne l’identità grazie a un’anomalia dentaria di Saman. Inoltre sul collo è stata rinvenuta una frattura che avallerebbe l’ipotesi dello strangolamento come causa della morte. Intanto la procura di Reggio Emilia ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta per fare luce sulla possibilità che possano esserci altre persone coinvolte nell’omicidio di Saman.
Il 10 febbraio 2023 si aprirà a Reggio Emilia il processo a carico dei cinque familiari imputati: lo zio Danish Hasnain e i due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq, oltre ai genitori, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, quest’ultima unica latitante che si presume sia ancora nascosta in Pakistan. Tutti devono rispondere delle accuse di sequestro di persona, omicidio volontario e soppressione di cadavere.
È con questo triste epilogo che si conclude la storia della ragazza pakistana, la cui pecca è stata quella di essersi ribellata ad una “cultura” in cui la donna è donna e l’uomo e l’uomo. Una differenza che porta la prima a essere sottomessa a quest’ultimo.
Una cultura in cui disobbedire può portare anche alla morte per “aver disonorato la famiglia” come sostenuto dallo stesso padre della vittima.
“Io sono già morto, l’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa”, senza fare nomi specifici, ma intendendo con “noi”, avrebbe spiegato sempre il parente ai Carabinieri, il contesto familiare.
1)Sulla base di questa intercettazione terrificante seguita da un finale altrettanto inquietante,l’uccisione di Saman Abbas si può considerare un femminicidio o un crimine culturalmente orientato?


A questa domanda ed alle prossime risponderà l’avv. Marco Valerio Verni:
“Da quel che si legge sulla stampa, credo che il tragico omicidio della povera Saman sia da ricondurre, probabilmente, nell’alveo del c.d. delitto d’onore: il Pakistan, paese di origine sia suo che della sua famiglia, detiene il poco invidiabile primato di questo crimine (chiamato karo- kari),commesso sul suo territorio, generalmente contro donne accusate di adulterio o che si sposano senza il consenso della famiglia (più di mille all’anno, un quinto di quelli perpetrati a livello mondiale secondo diverse istituzioni internazionali e organizzazioni non governative). Una pratica che, nonostante in quello stesso paese sia stata criminalizzata con alcuni interventi legislativi, continua a verificarsi e ad essere approvata socialmente soprattutto nelle zone tribali del Paese.
In tale contesto, la famiglia, il clan, e i diritti tribali soppiantano i diritti umani individuali e l’onore viene ad essere inteso come una vera e propria virtù comunitaria: la conseguenza è che, tramite l’omicidio, si tende a ripristinare un certo ordine e, appunto, quell’onore tradito, che appartiene non solo alla singola famiglia, ma ad un intero sistema che è stato in qualche modo stravolto. Non è un caso che, ad esserne gli autori possano essere tanto il marito, quanto il padre, il fratello, lo zio, il cugino (cioè la parte maschile della famiglia), tutti motivati dal dover salvaguardare il presunto onore e lo status della famiglia all’interno della società. Ma anche le stesse donne, in quanto madri, possono venire coinvolte, direttamente o indirettamente, nell’azione delittuosa, proprio perché si deve dimostrare “compattezza” nel voler ripristinare l’onore perduto e, quindi, l’ordine prestabilito, non solo, come dicevo, della singola famiglia, ma dell’intera collettività, della quale, in pratica, chi compie l’azione delittuosa ne diventa, in parte, e per certi versi, quasi la longa manus, “armata”.
Con l’ulteriore conseguenza che, nella società di appartenenza, costui, o costoro, nel caso gli autori del delitto fossero diversi, non vengono percepiti in maniera negativa, ma ritenuti, sostanzialmente, “nel giusto”. E’ assurdo, per noi, pensare questo”.
2)Come e quanto sono disciplinati i crimini culturalmente orientati non solo in Italia ma anche dall’Occidente?
“Intanto quando si parla di reato culturalmente orientato, si intende fare riferimento al fenomeno che si verifica quando un immigrato, entrando in uno spazio giuridico straniero, si trova sottoposto a un sistema penale che connota come reato una condotta che per la propria cultura e per il sistema penale di provenienza, invece, tale non è.
In tutte le società, l’impianto normativo, soprattutto quello penale, cambia con il mutare dei valori e delle situazioni che, di volta in volta, si vengono a presentare.
Noi abbiamo un codice penale che, nel tempo, si è adeguato ad alcune nuove fattispecie criminali, su cui, gioco-forza, si è dovuto intervenire proprio per il venire in contatto, in maniera sempre più frequente, della nostra società con determinate altre realtà. Penso al divieto della mutilazione genitale femminile, come al divieto dei matrimoni forzati e, in particolare, con minori, e ad altre fattispecie ancora.
Di conseguenza, anche la nostra giurisprudenza, dal canto suo, ha dovuto affrontare la problematica.
Generalmente parlando, le reazioni dei sistemi penali europei a tali tipologie di illecito sono riconducibili a due modelli: quello “assimilazionista”, che, ancorato, in particolare, al principio di territorialità e ad un’interpretazione formale del principio di uguaglianza, rimane in un certo senso “indifferente” all’influenza culturale di un certo comportamento illecito (altrimenti detto: non importa a quale cultura il reo dichiara di appartenere: se quella condotta costituisce reato per tutti i cittadini dello stato ospitante, allora egli è punibile al pari degli altri); quello “multiculturale”, volto, invece, ad accordare rilevanza in sede penale al fattore culturale. Esso è diffuso nei paesi anglosassoni, quali Stati Uniti e Inghilterra, dove da tempo si ricorre all’istituto della “cultural defense”, che può anche escludere la responsabilità dell’autore di alcuni reati culturalmente motivati.
In Italia, l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario che si è sviluppato nel tempo, è fermo nell’escludere qualsiasi incidenza del fattore culturale circa l’accertamento riguardo la responsabilità dell’autore del reato, considerando rilevante la motivazione culturale solo, eventualmente, per la determinazione della pena in fase di trattamento sanzionatorio avuto, riguardo peraltro, ad una serie di parametri che il giudice del singolo caso è chiamato a valutare di volta in volta, tra cui l’effettiva esistenza di una norma nel suo paese d’origine, che abbia in qualche modo vincolato, poi, l’autore a compiere un reato nel paese ospitante; il fatto che questa stessa norma sia consolidata nell’ordinamento di provenienza del suddetto, e non sia invece frutto di una mera interpretazione o visione individuale di quest’ultimo e, ancora, il grado di inserimento del soggetto agente nel predetto (paese ospitante)

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Insomma, per quanto, giustamente, si voglia garantire il rispetto di qualsiasi diritto, compreso quello alla propria identità culturale, è altresì difeso il principio secondo cui, in un necessario bilanciamento di beni, non si possa e non si debba che garantire tutela a quelli fondamentali, così come definiti tali dalla nostra Costituzione e dall’ordinamento penale. Pur tuttavia, come detto, facendo sì che il trattamento sanzionatorio sia comunque ritagliato al singolo caso concreto, avuto riguardo al reato compiuto ed alle “variabili” di cui sopra.
In pratica si ritiene che, chi venga da noi, debba conformarsi alle nostre regole, in base ai principi stabiliti tanto in alcune norme del codice penale (ad esempio, quello di obbligatorietà e di territorialità, previsti agli artt. 3 e 6 dello stesso), sia di rango costituzionale”.
3) A suo avviso, cosa si dovrebbe attuare a livello giuridico ma anche culturale per far fronte a questa nuova fattispecie di reato?
“A livello giuridico, ritengo che si debba rimanere fermi, con tutte le forze, sull’indirizzo giurisprudenziale prima richiamato e, laddove possibile, intervenire ulteriormente sulla normativa codicistica, ancora migliorabile. Ma il problema vero, invece, è, a mio giudizio, sotto l’altro aspetto su cui Lei ha domandato, ossia quello culturale. E’ lì che bisogna intervenire con una maggior sensibilizzazione, ai vari livelli, su quello che significa rispettare certi valori che riguardano, al dunque, diritti inviolabili della persona. Anche garantendo la possibilità di studiare a chi non ce l’ha. E’ un discorso complesso, ma che andrebbe risolto.
Ma se chi viene da noi, si isola, non ha voglia di integrarsi, o magari non trova il modo, perché chi lo accoglie fa male il suo “lavoro”, è chiaro che tutto salta e diventa pericoloso.
Alcuni casi di cronaca, anche recenti, hanno raccontato di persone che, venute da noi da anni, ancora non parlano la nostra lingua, che è il primo strumento di comunicazione, conoscenza e, quindi, integrazione, appunto.
Altro aspetto: la rieducazione carceraria. Coloro che subiscono una pena detentiva, devono potersi davvero rieducare, sia per diventare, a loro volta, volano di cambiamento, sia perché, al contrario, si finirebbe con il peggiorare ulteriormente le cose, sfociando anche nella radicalizzazione e nei fenomeni ad essa correlati (in primis, il terrorismo)”.
4)Si può parlare di una vera e propria emergenza? E perché?
“Forse di una vera e propria emergenza, per fortuna, ancora non si può parlare, ma essa potrebbe presto configurarsi se non si mettono in atto tutte quelle possibili iniziative, di cui anche dicevo prima, atte a sensibilizzare ed integrare. Fermo restando, naturalmente, che chi viene da noi debba, lui per primo, essere disposto a farlo”.
Con l’orrore che ha colpito Saman Abbas è emerso un altro dramma umano, purtroppo ancora diffuso anche in Italia : il fenomeno della sposa bambina.
Tra il 2019 e il 2021 sono stati 24 i casi di matrimoni forzati in Italia, ma questi numeri “sono solo La punta dell’iceberg di un problema che fa fatica ad emergere”. L’associazione Non c’è pace senza giustizia, sostenuta da The Circle Italia onlus ne parla approfonditamente. Dati preoccupanti, quelli inerenti gli sposalizi forzati in tenera eta’, soprattutto se a seguito dell’introduzione del reato “Costrizione o induzione al matrimonio” ex art 558 bis cp grazie all’intervento del codice rosso nel 2019.
5)Perché nonostante gli interventi normativi e una cultura in difesa dei minori, in Italia continua a diffondersi questo orrore?
“Come dicevo, se non vi è sensibilizzazione da una parte, ed integrazione dall’altra, il problema- che e’ principalmente culturale- vi è e vi continuerà ad essere” .
6)Quali sono le sue proposte per sconfiggere la piaga dei crimini culturalmente orientati o l’abominio delle spose bambine?
“Sarò ripetitivo, ma, fermo il fatto che non vi possa e non vi debba essere nessun cedimento ideologico al dover aprire il ragionamento al fatto che “se al loro Paese è normale, allora forse pure noi dovremmo essere più comprensivi”, magari riconoscendo qualche attenuante a comportamenti ed azioni che da noi costituiscono- viva Dio- dei reati, occorre, d’altro canto, vigilare di più sull’operato di tutto quel mondo che, a vario titolo, si occupa, anche con sovvenzioni pubbliche, di accoglienza. Sarà scomodo da dire, ma se salta questo anello, o è debole, tutta la catena ne risente”.
A monte, le stesse realtà che si occupano di questo importante passaggio, devono esser messe nelle migliori condizioni per poter agire: di conseguenza, andrebbero regolamentati meglio i flussi migratori, sull’ovvia considerazione che una immigrazione incontrollata porta all’impossibilità di gestire come si deve tutti i passaggi successivi all’approdo sul nostro territorio, via terra, via mare, o via aria, delle persone che vengono da noi.
A garanzia degli stessi immigrati, in primis, che hanno il diritto, ma anche il dovere, di integrarsi, conoscendo la nostra cultura e, rapportata con quella loro di provenienza, rispettandola nelle differenze, soprattutto riguardo a ciò che, se da loro non costituisce reato, da noi, invece, lo è”.

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