Cina e Usa la guerra assale Wall street

Continua lo scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina. Nella giornata di ieri, cinque società cinesi hanno comunicato al mercato e agli investitori la loro volontà di lasciare Wall Street e attivare così il delisting dalla Borsa di New York. Si tratta, come evidenziato da Reuters, di PetroChina, China Life Insurance, China Petroleum Chemical Corp., Sinopec e Aluminum Corp. of China,aziende che nel loro complesso vantano una capitalizzazione di mercato pari a circa 370 miliardi di dollari, cioè più della metà della capitalizzazione totale di Piazza Affari (645 miliardi di euro).


Cio’ gravita attorno quattro società cinesi, PetroChina, China Life Insurance, China Petroleum Chemical Corp., Sinopec e Aluminum Corp. of China,  che hanno comunicato al mercato e agli investitori di aver iniziato l’iter di delisting dal Nyse.
Le società hanno previsto di dire addio al Nyse tra fine agosto e gli inizi di settembre.
Come spiegato in una nota ufficiale di Sinopec, il cda ha preso questa decisione sulla base di diverse considerazioni, tra cui “il volume di negoziazione limitato rispetto al volume degli scambi mondiali delle sue Azioni H (quotate a Hong Kong) e il notevole onere amministrativo del mantenimento della quotazione sul Nyse. E il rispetto della rendicontazione periodica e dei relativi obblighi dell’Exchange Act a lungo termine”. Motivazioni ribadite ufficialmente da PetroChina. Infatti, se tre delle società sono quotate alla Borsa di Hong Kong, Sinopec scambia alla Borsa di Shangai.
Come evidenziato da Reuters, a maggio le quattro società sono state aggiunte all’elenco istituito dalla Holding Foreign Companies Accountable Act (Hfcaa, una legge che richiede alle società quotate di non essere possedute o controllate dal governo cinese), in quanto non sarebbero conformi agli standard di revisione delle autorità di regolamentazione statunitensi.
La posizione della Cina insiste: “Le quotazioni e i delisting sono comuni nei mercati dei capitali. Secondo gli annunci di queste società, le aziende hanno osservato rigorosamente le norme e i regolamenti statunitensi da quando sono quotate nei loro mercati. Le decisioni di avviare il delisting sono state prese, quindi, in base alle loro considerazioni commerciali”, ha dichiarato in una nota la China Securities Regulatory Commission. “Queste società sono quotate su più mercati e solo una piccola parte dei loro titoli è negoziata su quello statunitense. Il piano di delisting non metterà a repentaglio la capacità di raccolta fondi di queste società attraverso i mercati dei capitali nazionali ed esteri”.

Cosi’ traballa l’impianto capitalistico di matrice globalista, anche a causa di

innegabili prescrizioni politiche principiate dagli Usa che hanno causato l’obsolescenza di Huaiwei scaraventandola sulle posizioni inferiori dei produttori di telefonia intelligente. A tali contingenze si aggiunge l’astio con cui l’apparato mediatico e politico americano postula una bancarotta effettiva della Cina caldeggiandone un pagamento immane di danni, a livello mondiale, per aver funto da incubatrice pandemica.

La terra del Dragone tuttavia, rintuzza, a differenza dell’Italia che ha subito la stessa pressione e per i medesimi motivi negli anni ottanta e novanta, la discrezionalita’ anglossone sulla gestione e quote azionarie, delle multinazionali pubbliche quotate sui listini finanziari delle macroindustrie private. La motivazione ctonia di cio’ e’ da ricercare nello sbilanciato asso di potere, attinente lo stato, rispetto le banche commerciali, i fondi d’investimento e le banche centrali possedute dai suddetti attori economici. Tuttavia va menzionato il potere ormai attuato per multinazionali, fondi di investimento, banche commerciali e banche centrali assoggettati a nuclei di potere privatistico, i quali connotano l’erario ben inferiore ad essi dal punto di vista della liquidita’. Dunque sarebbe lecito soprassedere le direttive delle piazze finanziarie anglosassoni verso le aziende pubbliche cinesi, eludendo ridimensionamenti finanziari per il macrocosmo europeo ed americano.

Date le privatizzazioni di Enel, Tim, Eni, Cassa depositi che oggi sciorinano servizi peggiorati, prezzi maggiorati per la comunita’ e dividendi piu’ alti per i soci privati, si respira astio nei confronti dei fautori italiani di tali prescrizioni finanziarie antitetiche il reale e costruttivo spirito, liberista, che lo denota come mirabile: ossia la pacifica e bilanciata convivenza tra pubblico e privato, senza oneri per la collettivita’ e privatizzazioni tese a depauperare e depotenziare lo stato.

Frattanto il rating per l’Italia e’ degradato secondo una delle agenzie subordinate i fondi di investimento, le banche commerciali e gli azionisti privati di Fed e Bce per cui le riforme Draghi appaiono ineluttabili. Mentre gli azionisti privati delle banche centrali, in ottica di attuazione della criptovaluta, continuano a decidere quanta massa monetaria deve circolare nelle asfittiche economie euroamericana.

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