La guerra in Ucraina blocca il settore delle calzature. È allarme. Milioni di euro fermi.

Domenico Panetta

Ancora una volta il settore delle calzature è alle prese con un momento difficilissimo, è già stato bastonato dalle sanzioni del 2014 e si stava da poco riprendendo dagli effetti della pandemia. A lanciare l’allarme è Siro Badon, presidente di Assocalzaturifici, descrive così il difficile momento che stanno affrontando le imprese del comparto a causa delle sanzioni alla Russia per il conflitto in corso in Ucraina. Girando tra gli stand degli espositori al Micam (Salone internazionale della calzatura), al via oggi alla Fiera Milano di Rho, tutti nessuno escluso mettono in evidenza l’importanza che il mercato russo aveva per il loro business: il 20-30% del totale per alcuni ma per altri raggiunge anche l’80%. La vera problematica è proprio di natura finanziaria, i fatti inutile girarci intorno stanno in questo modo: le scarpe spedite non si sa se verranno pagate e le calzature nei magazzini, pronte per essere vendute, sono ferme per l’incertezza di ordini che potrebbero diventare carta straccia. Un’attesa che solo guardando i numeri può dare la dimensione del danno. I dati diffusi dall’associazione Assocalzaturifici durante il Micam sono i defuenti, la Russia per il mercato italiano delle calzature vale il 2,7% delle esportazioni. Nel 2021 sono state vendute 3 milioni e mezzo di paia di scarpe made in Italy in Russia, con circa 250 milioni di fatturato, in Ucraina 450 mila paia con 36 milioni di fatturato. «Alla politica che ci dice di cercare mercati alternativi io chiedo di indicarci quali – aggiunge Badon – l’America è molto difficile, la Cina è chiusa, come il Giappone, la Corea sta soffrendo, il Nord Europa non ne parliamo, rimane solo l’Africa. Senza contare che per costruire un mercato ci vogliono decenni».

Ci sono poi territori che più di altri stanno risentendo di questa stanno risentendo di questa situazione, tra tutti il versante marchigiano. L’export delle Marche verso la Russia, secondo i dati Cna, vale 111,9 milioni di euro in calzature, tessile e abbigliamento. L’export delle imprese marchigiane in Ucraina vale 36,7 milioni in prodotti della moda. Tra gli imprenditori marchigiani in difficoltà troviamo Marino Fabiani, che dal 1992 ha trovato nel mercato russo il principale cliente per i suoi affari: «I russi hanno sempre pagato, non hanno mai lasciato indietro nulla – spiega Fabiani, che ha una ditta a Fermo con 32 dipendenti, artigiani altamente specializzati – Abbiamo una produzione bloccata, non abbiamo prospettive di lavoro, oltre a una produzione da consegnare già pronta e ferma perché al cambio attuale del rublo costa il doppio. Il danno delle sanzioni è già irreparabile perché non riprenderemo a lavorare tra due mesi. In cifre abbiamo milioni di euro di merce fermi in magazzino, il mercato russo valeva l’80% del mio business,conclude Fabiani». Fabiani non è il solo. «Il 30 per cento del mio fatturato faceva riferimento al mercato russo, per noi è un grosso danno – spiega Luca Guerrini, che ha un’azienda a Montegranaro, cuore del distretto calzaturiero marchigiano – siamo tutti in attesa di capire quali saranno le soluzioni dei problemi legati al cambio, alle difficoltà

di effettuare i pagamenti tramite le banche, con anche il blocco delle carte di credito. Più si va avanti più la stagione diventa inoltrata e quelle scarpe non le venderemo più, contando le settimane di tempo che impiega il trasporto, oltre all’incognita della dogana. Siamo, di fatto, di fronte a una liquidità che non rientra».

Il marchigiano non è l’unico territorio a risentirne, l’azienda Artioli di Tradate, in provincia di Varese, con 40 dipendenti, produce e vende scarpe da 1.500 euro in media, che hanno incantato attori di Hollywood, come George Clooney e Sean Penn, e anche se nel tempo le sue calzature si sono diffuse in tutto il mondo «l’esportazione verso il mercato russo pesa comunque il 30% – racconta Andrea Artioli – era un mercato di riferimento del lusso dove si ricercava il prodotto italiano artigianale d’eccellenza. Noi facciamo 50 scarpe al giorno. Le sanzioni pesano molto di più per noi, per i nostri prodotti, rispetto all’impatto che possono avere in altri paesi d’Europa. In Ucraina avevamo anche un negozio monomarca a Kiev, ovviamente chiuso, e servivamo circa 5 negozi plurimarca, conclude Artioli. Gli imprenditori alla politica ora chiedono ristori, cassa integrazione per i dipendenti, aiuti con le banche e poi «la possibilità di sopravvivere perché, anche se la fabbrica è ferma, le tasse vanno avanti» spiegano. Un vero è proprio grido da allarme che forse non verrà ascoltato.

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