Di Pino Aprile

Perché il Sud si fa trattare così? Perché vota persino per la Lega, il cui segretario nazionale, Matteo Salvini, dovette patteggiare una condanna definitiva per razzismo contro i terroni? Perché ministri, parlamentari, presidenti delle Regioni di centrodestra del Sud (e prima quelli del Pd, allora al governo, con Bonaccini alleato della Lega a danno del Sud) votano contro il Mezzogiorno, sino a condividere il disegno di legge del (purtroppo e incredibilmente) ministro Roberto Calderoli, sotto processo per razzismo e che ritiene i napoletani “topi da derattizzare”?

«Perché sono un branco di pecoroni!»: quante volte lo avete detto o ascoltato, a commento di quelle domande, senza manco scendere nel tentativo di una più articolata risposta, perché “cascano le braccia”? E ci sono pure terroni che credono di essere grandi strateghi, scegliendo di offrirsi qual gregge coloniale al servizio del partito razzista anti-meridionale, per brucare i resti sotto la tavola del padrone.

Ma, a proposito dei pecoroni, vogliamo invece provare ad andare un passo più avanti?

Come sono le pecore? Bianche, lo sappiamo tutti, no?

«Ma la vera pecora è nera», mi dice Pino Simone, che ha la faccia da pastore, birraio o filosofo: barba incolta e bianca come i capelli, camicie country a quadroni colorati, di cui il generoso girovita collauda la resistenza di bottoni e asole. Pino ha trovato il suo filosofico equilibrio: fa il birraio (con rara competenza, riconosciuta pure all’estero) e ha chiamato “La Pecora nera” il suo pub a Cassano Murge (Bari).

«Gli allevatori, però, privilegiarono le pecore bianche», continua, «perché la loro lana si presta a usi che la nera non consente: per esempio a essere tinta. La pecora bianca, però, è bianca, perché affetta da una forma di albinismo. Il che comporta, fra le altre cose, che tenga la testa bassa, per difendere dalla luce gli occhi, che sono deboli negli albini, come si sa».

Vi sembra un dettaglio da poco? Invece cambia tutto: la visione del mondo, l’indole, il destino della pecora. E il nostro. Se pensate che esagero, prima di trarre conclusioni, seguite lo sviluppo di quanto detto da Pino Simone.

Che significa che la pecora bianca per albinismo tiene la testa bassa a difesa degli occhi? Che il suo sguardo copre uno spazio ristrettissimo intorno a sé: giusto quello dell’erba da brucare. Il che ne fa una sorta di macchina vivente (è la definizione di “schiavo” data da Aristotele) per trasformare un prato in latte e carne per arrosticini. La pecora bianca ignora com’è il mondo oltre quell’angusto orizzonte; è un animale senza alcuna padronanza di sé, perché non ha idea dello spazio in cui si muove. Al pastore basta indirizzare le prime del gregge, perché tutte le altre seguano, avendo come riferimento solo la coda di quella appena davanti a sé. Ignorando dove si va e perché. La sola certezza, per non essere sole (sempre un pericolo per animali esposti all’attacco di predatori), è stare nella scia delle zampe di chi precede.

Da qui deriva l’indole docile, remissiva, “senza carattere”, paurosa, perché la quasi assenza di visione laterale comporta che ogni ombra che irrompa nel ristretto orizzonte della pecora bianca è vissuta come una minaccia, palesandosi a distanza ridottissima, quindi pericolosa (la pecora nera, invece, spaziando su un più ampio orizzonte, è in grado di valutare se chi arriva è da temere o no). Questa è la ragione degli improvvisi scarti laterali della pecora bianca. Il cui esistere, così, si esaurisce nell’essere parte del gregge. Che è una cosa diversa dal branco, dallo stormo, dove gli individui, se avete mai osservato le nuvole di storni, propongono deviazioni di rotta uscendo dalla massa, che a volte segue, a volte no (nel qual caso rientrano). Il gregge, invece, ha una sola direzione e la decide il pastore.

Però, per l’emersione di caratteri recessivi, ogni tanto, da pecore bianche ne nasce una nera. Che sta nel gregge, perché è più sicuro e perché ce la tengono il pastore e i suoi cani, animali che aiutano l’uomo a tenere schiavi altri animali (è l’essenza della classe dirigente coloniale e della Questione meridionale). La pecora nera, però, non deve tener la testa bassa, perché i suoi occhi non sono feriti dal sole e questo ne fa un essere diverso dalla pecora bianca, perché può guardare il cielo e lo spazio finché lo sguardo arriva. E magari decidere di andare dove qualcosa la attrae di più, pur se non è sulla via del gregge (può aver scorto un’erba migliore, un ruscello). Se la bianca si stacca dal gruppo è perché si è persa; se lo fa la nera, è perché lo vuole: sta nel gregge per convenienza, ma resta un individuo, sceglie, “ha un carattere”. Che viene comunemente inteso come attitudine all’indipendenza, alla violazione delle regole, “dell’ordine costituito” cui sottostanno le bianche. La pecora nera non la puoi domare. E non perché ribelle, nella accezione del contrasto, dell’opposizione, ma perché libera. Con un capovolgimento di significati originari, quindi, la pecora nera, che è l’unica vera pecora, appare come quella sbagliata; e quella giusta, per tutti, è la bianca, che viene moltiplicata, solo perché ha un problema, ma proprio a causa di quello, fa comodo al pastore.

Da lui, la bianca avrà una maggiore attenzione, la nera un colpo di bastone, una sassata, quando si allontana e i cani (la polizia del gregge) la ricondurranno alla norma, ovvero alla sottomissione, con la “faccia feroce”, sfoderando i denti. Le pecore non sono una specie incline alla sudditanza, solo la variante con gli occhi deboli lo diviene.

E ora chiedetevi: come può un parlamentare del Sud votare un ordine del giorno per far pagare meno gli insegnanti meridionali? E un ministro salentino usare fondi destinati al Mezzogiorno, per far passare il progetto anti-meridionale della Lega dell’Autonomia differenziata, che i senatori del Sud approvano? Come può un movimento politico che scimmiotta le ragioni del meridionalismo allearsi con il partito diretto da un razzista certificato per sentenza? Come possono presidenti di Regioni del Sud far passare provvedimenti che privano la loro gente di diritti essenziali, per aggiungere privilegi alle Regioni già pigliatutto a danno delle più discriminate?

Forse la risposta è che il loro sguardo è limitato al proprio praticello, come la pecora bianca che non vede l’ampiezza dell’orizzonte, né quella del gregge. Nemmeno lo sa quanto è grande il gregge, essendo il suo spazio di visione ristretto alle poche consorelle incluse nel suo sguardo limitato.

Per dire: mentre sindaci del Sud e un presidente di Regione (Vincenzo De Luca) protestano a Roma contro l’illecita sottrazione di fondi agli enti del Mezzogiorno (vedi sentenza del Tribunale amministrativo della Campania), il presidente della Calabria accetta l’elemosina del “signor” primo ministro del governo che svuota il Sud per conto dei poteri pigliatutto padani, con la complicità del ministro contro il Mezzogiorno, Raffaele Fitto (reddito di cittadinanza eliminato; esclusione dei progetti meridionali da quelli finanziati dal Pnrr; dirottamento sui Lep di fondi Coesione&Sviluppo, già assegnati al Sud; chiusura delle Zone economiche speciali che funzionavano benissimo, per accentrare tutto a Roma, commissariando il Mezzogiorno nelle mani di un pretenzioso vicerè a cui dover baciare l’anello per farsi approvare, con i tempi ministeriali e del clientelismo, l’apertura di un b&b, mentre al Nord se la sbrigheranno in loco, velocemente e a cavoli loro; eccetera).

La pecora bianca che si adegua alla volontà e agli interessi del pastore e dei suoi cani sembrerà persino più in gamba delle altre: se la Calabria ottiene quello che è negato al resto del Sud, bravo il presidente; se un sindaco ottiene l’asilo che non verrà dato al paese accanto del suo collega pecora nera, bravo lui. E così, distribuendo le briciole del proprio pasto ai pecoroni del gregge, il pastore e i loro cani creano una gerarchia che premia la sottomissione e rende vita dura a chi alza gli occhi al cielo (guarda la tua carriera e fregatene di quanto grande sia il prezzo pagato da tutti gli altri per un tuo minuscolo vantaggio; guarda la tua Regione e fregatene del resto del Sud e del Paese; guarda il tuo Comune e fregatene di tutti gli altri: “Caino, dov’è Abele?”. “Signore, son forse io il custode di mio fratello?”).

Il potere educa a tener bassa la testa e se intorno a te vedi solo teste basse, ti convinci che quella sia la tua vera natura, non un comportamento imposto. Chi verrà dopo (magari, per più di 160 anni, 6-7 generazioni…) non conoscerà altro mondo che quello delle teste basse e non sospetterà neppure che la verità possa essere diversa.

La scoperta che non è così apparirà sovversiva, rischiosa per chi la proponga, perché si ritroverà a sostenere, in estrema minoranza, una diversa visione. Per questo, avrà contro non solo il potere, ma soprattutto la propria comunità, che dovrebbe sconvolgere il suo modo di esistere, le gerarchie stratificate, sia pure in una condizione gregaria (il capo degli schiavi, a cui il padrone passa i vestiti dismessi e a cui fa ingravidare le schiave più belle, opporrà resistenza alla perdita del ruolo. Saresti ancora presidente leghista della Sardegna o ministro meridionale contro il Sud, in un Mezzogiorno risvegliato e consapevole?).

Accettare una verità che confligge con quanto è “da sempre” sotto gli occhi di tutti è difficile. E se la si conosce e si ha il coraggio di condividerla, non si può lasciare tutto come prima. C’è stato un ribaltamento di valori: chi tradisce il vero carattere e il destino della pecora non è quella allevata e moltiplicata ad arte per gl’interessi di chi la vuole schiava, ma quella che conserva indole e capacità della sua specie. E però, nel racconto imposto e fatto diventare vero, “sbagliata” è la pecora rimasta se stessa, quella che sta a testa alta.

Il campo in cui esercitiamo i nostri poteri è quello che riusciamo a vedere (magari anche al microscopio, nell’infinitamente piccolo o con i telescopi, nell’infinitamente grande) e a immaginare, sulla scorta di quello che possiamo vedere. Pensate l’accelerazione che ha dato alla specie umana la conquista della posizione eretta, poter guardare senza limiti intorno e in alto. La pecora nera ci è parente.

Una indiretta conferma è il muflone, la pecora selvatica che nel comportamento e nell’aspetto mostra il suo carattere forte e indipendente. Me ne parlava l’autore di “Padre padrone” e lui stesso pastore, Gavino Ledda, durante un nostro vagabondaggio sul Gennargentu. «Il muflone è rimasto libero, non ha mai accettato la comodità della schiavitù all’uomo. Ogni branco è guidato da un re. Quando un giovane esemplare ritiene di poter aspirare a quel ruolo e sfida il capo, se perde, non resta da sconfitto nel branco, ma vaga per la montagna da solo, re di se stesso, finché non trova un gruppo senza guida, di cui si pone al comando».

Il muflone non è bianco.

Noi di che colore vogliamo essere?

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