Di Maurizio Gustinicchi (Economista)
“La finanza è l’arte di far passare i soldi di mano in mano, finché non spariscono.”
(Robert W. Sarnoff).
La settimana scorsa abbiamo avuto modo di capire come, per rispondere al decreto legge 118 del 2021, sarà necessario assumere in azienda un laureato in economia e commercio che ha effettuato un master biennale in Management di Piccole e Medie Imprese e che ha almeno 20 anni di esperienza nel mondo della consulenza manageriale (cioè a 360 gradi).
In pratica uno come il sottoscritto.
E questo è un problema, perché neanche noi (cioè quelli come me) siamo infallibili, qualche dettaglio ogni tanto lo trascuriamo. Nessuno nasce perfetto, la perfezione non è di questo mondo. E allora? E allora, purtroppo, il 99,99% delle imprese italiane saranno esposte, ogni giorno, sempre più al rischio di passaggio di mano o alla fuoriuscita dal mercato capitalista.
Oggi cercheremo di quantificare gli effetti a livello macroeconomico del provvedimento di cui al famoso decreto legge.
Intanto iniziamo dicendo che questo 2023, anno in cui gli adeguati assetti inizieranno a svolgere compiutamente il proprio lavoro, è ancora caratterizzato da alti costi delle energie, elettrica e gas, che già han contribuito a erodere i margini delle PMI Italiane. I listini delle aziende possono esser adeguati molto più lentamente rispetto all’esplosione dei costi, di tal guisa, le aziende avranno più uscite che entrate e saranno costrette a chiedere prestiti al sistema bancario per spalmare in più esercizi le perdite subite e preservare i flussi di cassa di breve periodo. Disgraziatamente, però, FED e BCE, impegnate a riportare al 2% l’inflazione abbattutasi nel sistema economico occidentale, stan pian piano aumentando il costo del denaro, manovra che può avere un senso in Usa, dove l’inflazione ha natura interna e può esser manovrata lavorando sui tassi, ma non in Europa dove l’inflazione è importata dall’esterno.
Ora, grazie a FED e BCE, unitamente all’esplosione dei costi per materiali ed energie, avremo anche la bomba del costo dei finanziamenti in pancia e di quelli che andremo a chiedere in attesa di armonizzare le nuove entrate con le vecchie uscite.
Immaginatevi un’azienda con fatturato di 30 milioni di euro che, grazie agli incentivi di Industria 4.0 e ai prestiti garantiti dallo stato, di Contiana memoria, abbia effettuato ingenti investimenti, portando internamente, grazie alle nuove tecnologie, la propria intera produzione. La nuova capacità produttiva, da saturare, impone di produrre tutti i giorni al 100%, d’investire pertanto in scorte di semilavorati e prodotti finiti (per non fermare le macchine) che però hanno il cattivo gusto di fermare capitali (fino a quando gli stessi non saranno collocati sul mercato). Supponiamo poi che, data la stretta monetaria, i clienti di quest’azienda riducano le proprie scorte, o rimandino gli acquisti ad un trimestre migliore, per sfruttare pienamente i nuovi investimenti e massimizzare il profitto, l’azienda deve necessariamente aumentare di molto le scorte di semilavorati e prodotti finiti. Ipotizziamo che il rapporto tra livello delle scorte e fatturato passi momentaneamente da un valore 1 vs. 3 a 1 vs. 2.
Un livello di scorte che da 10 milioni passa a 15 milioni (causa riduzione temporanea acquisti da parte del mercato) genera in prima battuta (a parità di tasso) maggiori costi (cioè riduzione dei margini di profitto) per 100.000 euro. E questo solamente per l’incremento di scorte dato dal rallentamento degli acquisti da parte del mercato. Ma l’azione dell’aumento dei tassi ha anche un effetto diretto sui costi perché il denaro ora costa il 5%, non più il 2. Ne consegue che quel 3% aggiuntivo, applicato su un nuovo maggiore livello di scorte (15 milioni di euro e non 10) determina altri 450.000 euro di extra costi. La somma di entrambi i valori crea extracosti per circa 550.000 euro. In pratica, è come se l’azienda avesse assunto 17 operai che se ne stanno tranquilli in sala caffè tutto il giorno, tutto l’anno, senza fare mai una sola ora di lavoro. E quando il capo passa davanti, lo salutano di cuore e lo ringraziano.
Quante aziende possono resistere in queste condizioni? Poche.
Riassumendo, con l’innalzamento dei tassi di interesse dal 2% di 2 anni fa al 5-6% attuale, con la contrazione degli acquisti da parte dei clienti finali, il risultato per tutte le azienda è un netto peggioramento dei conti.
Ora sorge un altro problema. Se l’azienda ha margini elevati può sopravvivere, ma se l’aumento dei costi è tale per cui i margini diventano negativi, l’azienda rischiare di non pagare (almeno temporaneamente, diciamo 4-5-6 mesi) o lo stato, o le banche, perché i fornitori e i dipendenti vanno pagati.
E cosa succede se si smette di pagare le banche perché si entra in difficoltà (dopo aver superato in rapida successione il lock-down da covid e la crescita dei costi energetici da speculazione)?
Che le banche fanno partire la segnalazione e, contemporaneamente, esse stesse entrano in difficoltà.
Per il credito concesso ai clienti ottimi, le banche sono chiamate ad accantonare circa il 20-30% del prestito erogato, per quelle in stato d’insolvenza devono invece accantonare il 130%. Capite il doppio dramma?
E come si diventa insolventi?
Secondo gli adeguati assetti basta saltare 2 rate dei prestiti in essere, magari proprio quei prestiti ottenuti durante la parte finale della pandemia coi provvedimenti di Conte.
Nel momento stesso in cui le aziende avrebbero bisogno di prestiti per normalizzare i flussi di cassa da crediti e debiti, si troveranno delle banche impegnate ad accantonare quel 100% aggiuntivo su vecchi prestiti per clienti scivolati, causa adeguati assetti, tra quelli in stato d’insolvenza. E dove mai potrebbero trovare i soldi le banche se esse stesse dovranno prima consolidare i propri conti? Le banche non avranno mai più capitali a disposizione per far fronte alle nuove richieste del mercato. Esse stesse sono automaticamente diventate istituzioni necessitanti risorse per la propria sopravvivenza.
Capite le dimensioni che assumerà la crisi nel nostro paese?
Al massimo le banche potranno aiutare qualche azienda particolarmente sana e solida (come se ne avessero bisogno), cioè quelle aziende che, tra l’altro, possono accedere direttamente al mercato dei capitali.
Alcuni banchieri stimano che circa il 30% delle aziende italiane salteranno, tutte quelle che hanno un Margine Operativo Lordo (una delle principali misure utilizzate per valutare i flussi di cassa delle imprese e lo stato di salute dei conti) inferiore al 5% e che hanno preso tanti prestiti per uscire dalla crisi del covid.

Che caratteristiche hanno questo 30% di PMI? Trattasi di aziende che sono fuoriuscite, causa covid ed esplosione dei costi energetici, dall’area di sicurezza e sono scivolate tra quelle denominate rischiose (7,5% delle PMI) e vulnerabili (20,8% delle PMI).
Capite cosa significa far chiudere il 30% delle aziende italiane?
Una catastrofe per la classe media italiana e uno tsunami per le banche.
A livello di produzione industriale forse il sistema non subirà grandi contraccolpi (credete forse che le grandi aziende si lascino sfuggire l’occasione di cannibalizzare le aziende più piccole? Impossibile! Il sistema capitalistico occidentale punta proprio a questo: concentrazione di capitale industriale e finanziario in poche mani.
Il problema sarà la scomparsa della classe media italiana, la svendita di assets italiani alle grandi banche anglo-americane, il crollo definitivo del sistema bancario italiano. QUest’ultimo dovrà ricorrere ad incrementi di capitale finanziario, via grandi banche di oltre oceano, e a nuove fusioni/concentrazioni per conseguire quelle economie di costo necessari a compensare le perdite e gli incagli da chiusure e fallimenti.
Il credit crunch che ne deriverà, come noto, porterà inevitabilmente alla contrazione del PIL. Se a questo scenario poi aggiungiamo la probabile escalation del conflitto russo-ucraino ed il mancato ritorno alla normalità dei prezzi di gas e corrente elettrica, alla scomparsa di classe media e banche aggiungeremo anche una contrazione dei fatturati, Uno scenario pessimista rende probabile una contrazione dei ricavi di circa l’1% (con effetti negativi del -2,5% sul MOL) e una dinamica recessiva nel 2023 (-1%) causata sia dalla riduzione dei consumi (-0,6%) che dalla stagnazione di investimenti (principalmente meno scorte ma anche minori investimenti).
Dai, tutto sommato ci attende un bel 2023, no?
Ad maiora.