7 gennaio ed il ricordo delle vittime di Acca Larenzia

Di Rita Lazzaro

«Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d’Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi.»
Questa è la rivendicazione della strage di Acca Larentia a nome dei “Nuclei Armati di Contropotere territoriale”.
Sono passati 45 anni da quel maledetto 7 gennaio dove persero la vita due giovani attivisti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larentia, nel quartiere Tuscolano.
All’evento è tradizionalmente collegata la morte di un altro attivista della destra sociale, Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo da un capitano dei Carabinieri, negli scontri con le forze dell’ordine avvenuti durante una manifestazione di protesta organizzata sul luogo stesso dell’agguato.
La strage ebbe inizio verso le 18:20 del 7 gennaio 1978, quando cinque giovani militanti missini,mentre si apprestavano a uscire dalla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia per pubblicizzare con un volantinaggio un concerto del gruppo di musica alternativa di destra Amici del Vento, furono investiti dai colpi di diverse armi automatiche sparati da un gruppo di fuoco formato da cinque o sei persone. Uno dei militanti, Franco Bigonzetti, ventenne iscritto al primo anno della facoltà di medicina e chirurgia, rimase ucciso sul colpo.
Il meccanico Vincenzo Segneri, ferito a un braccio, rientrò nella sede del partito e, assieme agli altri due militanti rimasti illesi – Maurizio Lupini, responsabile dei comitati di quartiere, e lo studente Giuseppe D’Audino – riuscì a chiudere dietro di sé la porta blindata, sfuggendo in questo modo all’agguato.
Lo studente diciottenne Francesco Ciavatta, pur ferito, tentò di fuggire lungo la scalinata situata a lato dell’ingresso della sezione ma, inseguito dagli aggressori, fu colpito nuovamente alla schiena; morì in ambulanza durante il trasporto in ospedale.
Nelle ore seguenti, col diffondersi della notizia dell’agguato tra i militanti missini, una folla sgomenta di attivisti organizzò un sit-in di protesta sul luogo della tragedia. Qui, forse per il gesto distratto di un giornalista che avrebbe gettato un mozzicone di sigaretta nel sangue rappreso sul terreno di una delle vittime, nacquero tafferugli e scontri che, fra l’altro, danneggiarono le apparecchiature video dei giornalisti Rai e provocarono l’intervento delle forze dell’ordine, con cariche e lancio di lacrimogeni. Uno di questi colpì anche l’allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, Gianfranco Fini.
Secondo alcune testimonianze, smentite molti anni dopo da perizie balistiche, i Carabinieri spararono alcuni colpi in aria mentre il capitano Eduardo Sivori sparò mirando ad altezza d’uomo, ma la sua arma s’inceppò; l’ufficiale si fece quindi consegnare la pistola dal suo attendente e sparò di nuovo, questa volta centrando in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni, militante della sezione di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Questa versione si rivelò completamente priva di fondamento tanto che diversi anni dopo l’ufficiale fu assolto per non aver commesso il fatto. Il giovane sarebbe morto dopo due giorni di agonia.
Inizialmente i compagni di partito delle vittime tentarono di raccogliere le firme per denunciare l’ufficiale ma i dirigenti del MSI rifiutarono di testimoniare per non pregiudicare i loro buoni rapporti d’immagine con le forze dell’ordine. L’ufficiale venne indagato in seguito a una denuncia presentata individualmente in questura da Francesca Mambro.
Anni dopo Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti Ministro dell’interno, avrebbe rivelato che l’allora capitano (poi arrivato al grado di generale), dopo aver sparato, sarebbe caduto in stato confusionale e avrebbe temuto ritorsioni per la sua famiglia.In seguito Sivori in base a una perizia balistica fu definitivamente scagionato con sentenza di proscioglimento definitivo nel febbraio del 1983.
In un’occasione l’ufficiale sostenne che il colpo che uccise Recchioni fosse stato sparato da brigatisti lì presenti.
Le prime indagini non portarono a conclusioni di rilievo. Il capitano dei Carabinieri Eduardo Sivori, inizialmente indagato, fu prosciolto dal giudice istruttore Guido Catenacci il 21 febbraio 1983, con sentenza di proscioglimento definitivo.
Nel 1987, in seguito alle confessioni di una pentita, Livia Todini,si arrivò a individuare cinque responsabili, militanti di Lotta Continua, accusati per il duplice omicidio. Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis furono arrestati; Daniela Dolce,[14] ultima accusata, scappò all’arresto fuggendo in Nicaragua.
Scrocca, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si tolse la vita in cella in circostanze sospette.Gli accusati furono poi assolti in primo grado per insufficienza di prove.
Una delle armi utilizzate nell’agguato, una mitraglietta Skorpion, fu poi rinvenuta, nel 1988, in un covo delle Brigate Rosse, in via Dogali a Milano. Gli esami balistici svelarono che quella stessa arma fu utilizzata in altri tre omicidi firmati dalle BR: quello dell’economista Ezio Tarantelli nel 1985, dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti nel 1986 e del senatore democristiano Roberto Ruffilli nel 1988.
Nel 2013, a seguito di un’interpellanza parlamentare, venne ricostruita la provenienza iniziale dell’arma, che fu originariamente acquistata, nel 1971 dal cantante (e appassionato di armi) Jimmy Fontana, e da questi venduta, nel 1977, a un commissario di polizia, lasciando però ignoto il modo in cui l’arma sia poi giunta nelle mani dei terroristi.
Ma la strage di Acca Larenzia non ebbe solo tre vittime. I giovani Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni furono solo i primi di una lunga lista di vittime legate alla strage del 7 gennaio.
Infatti  pochi mesi dopo la morte del suo unico figlio, Antonio Ciavatta, padre di Francesco, non sopportando la perdita del suo unico figlio, si suicidò.
La famiglia Ciavatta proveniva da un’estrazione popolare, i genitori della giovane vittima lavoravano entrambi come portieri in uno stabile in via Deruta, e Francesco, diciotto anni, unico figlio, frequentava il quarto anno al Liceo e si era iscritto al Fronte della Gioventù per la passione nell’organizzare qualsiasi attività politica. Dopo la morte di Francesco Ciavatta, Patrizia Walton, dirigente del Movimento Sociale Italiano, fu incaricata di seguire la famiglia Ciavatta. Dopo alcuni mesi la situazione era preoccupante. Nel suo rapporto a Giorgio Almirante, spiegava che il padre, Mario, aveva accusato malissimo il colpo. Chiuso in un preoccupante stato di mutismo: taciturno, silenzioso, un uomo spezzato dal dolore. Mentre la moglie, Angiolina Mariano, piangeva, si disperava ma riusciva ad esternare tutte le sue emozioni. Dopo pochissimi giorni, il padre di Francesco Ciavatta si suicidò bevendo, fino all’ultima goccia, acido muriatico contenuto in una bottiglietta. Fu ritrovato cadavere nei giardinetti pubblici senza labbra.
Arriviamo alla sera del 10 gennaio 1979 quando si consumo’ l’efferato assassiniO del
giovane 17enne, Alberto Giaquinto.
Il giovane fu ucciso da un poliziotto in borghese, Alessio Speranza, con un colpo alla nuca mentre si allontanava pacificamente da una manifestazione.

Giaquinto era insieme al suo amico Massimo Morsello, cantautore e poeta, che cercò inutilmente di dargli i primi soccorsi. L’ambulanza arrivò solo 30 minuti dopo, e dopo poche ore Alberto cessava di vivere tra le braccia della madre. Molti giovani avevano visto quello che era accaduto, ma quando andarono in commissariato a testimoniare, si videro denunciati perché la manifestazione non era autorizzata. Vergogna nella vergogna, perché – come disse alla Camera lo stesso Giorgio Almirante – il Msi aveva ben chiesto con settimane di anticipo alla questura l’autorizzazione a ricordare i morti di Acca Larenzia con un corteo silenzioso aperto dai parlamentari del partito, cosicché non ci fosse pericolo di disordini. Ma dopo aver perso tempo per parecchi giorni, il ministro dell’Interno aveva rimandato i missini al questore, il quale disse, all’ultimo momento, come faceva spesso, che il corteo non si sarebbe fatto. Ma i giovani missini avevano il diritto e il dovere di ricordare i loro morti, soprattutto perché le indagini su Acca Larentia non avevano alcuna svolta.

Sin dal primo momento si tentò, da parte delle sinistre e dei soliti giornali di regime, e anche da parte della questura, di infangare e calunniare Alberto Giaquinto, dicendo falsamente che era armato, che aveva munizioni, che aveva minacciato i poliziotti: tutte menzogne smentite dalla realtà dei fatti, in quanto nessuna pistola fu mai trovata, né le munizioni, e fu altresì provato che il giovane stando andando via.

Infatti nei momenti in cui Giaquinto agonizzava e la famiglia era accorsa all’ospedale San Giovanni, la questura inviò una perquisizione a casa Giaquinto, all’Eur, nella frenetica ricerca di un’arma che non fu ovviamente mai trovata. “Non la troviamo , non la troviamo!”, “La dovete trovare!”, era il tono delle telefonate tra i poliziotti e la questura a casa Giaquinto.
Ma la vergogna non si attesta infatti dopo l’assassinio, il ministero rifiutò per giorni di fornire il nome del poliziotto.
Una condotta intrisa da un’indegna e incivile omertà.
Una situazione a dir poco allucinante per quello che dovrebbe essere uno stato di diritto.
Una situazione così vergognosamente allucinante che porterà il padre della vittima a trovare le risposte per avere così giustizia.
Teodoro Giaquinto era un farmacista che aveva la sua attività a Ostia, simpatizzante missino, tanto che ogni mese non mancava di far avere il suo piccolo contributo alla locale sezione del Msi, poiché allora non c’era il finanziamento pubblico e il Msi non rubava come invece facevano i partiti dell’arco costituzionale. Questo padre, infatti, visto che gli inquirenti non facevano il loro mestiere, anzi ostacolavano la ricerca della verità, pagò di tasca propria un’agenzia di investigazioni la quale sentì centinaia di testimoni, sia tra i ragazzi che avevano partecipato alla manifestazione sia tra gli abitanti del luogo sia tra i commercianti nei pressi di piazza dei Mirti. Nessuna pista fu trascurata, e in breve si seppe la verità. Fu Almirante che in un’interrogazione parlamentare, atto insindacabile, fornì al Viminale il nome del colpevole. Ma le denunce per i missini che si erano recati a testimoniare rimasero.
Ma alla catena di ingiustizie ecco il colpo di grazia: Speranza fu condannato a sei mesi per “eccesso colposo di legittima difesa”.
Condanna a dir poco inquietante dal momento che una persona amata non può macchiarsi di eccesso di legittima difesa verso una persona disarmata che, per di più, era intento ad allontanarsi anziché aggredire.
Una morte ingiusta con un’ingiusta giustizia.
Una delle tante dove viene spezzata una giovane vita. Quella di uno studente amato da tutti, estroverso, amante della musica e del calcio, allegro, come tutti i ragazzi della sua età.
Ma la sua morte non fu scolpita come quella di altre vittime care al sistema democraticamente in rosso.
Perché?
Semplice: era solo un fascista.
Una delle tante, troppe vittime di terroristi di sinistra o dalle forze dell’ordine, volutamente gettate nel limbo.
Come quella di Mauro Culla, amico e compagno di classe di Alberto Giaquinto, rimasto così turbato per la morte dell’amico da togliersi la vita impiccandosi.
Vicende, eventi, colpi di scena, che vedono vite spezzate e famiglie distrutte in quella che più che una strage sa di una spirale maledetta scritta col sangue di italiani per mano di altri italiani.

Foto Imago Economica srl ©️

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